Tratto da: Nuovo Politecnico 99 Einaudi 1977 – 26 febbraio 1977
Lettera III
L’autore spiega perché il femminismo deve essere positivo ed astratto ed auspica che l’estinzione del cosiddetto ganzo non lasci rimpianti.
Cara Adele, (3)
esordirò con una sacrosanta autocritica. E’ infatti doveroso riconoscere che, pochi anni addietro, quando il movimento femminista diede i primi segni di vita furono in pochi, fra i politici, a comprendere il significato del fenomeno e ad intuire il rilievo che avrebbe di lì a poco assunto; ed io fui fra gli ultimi ad avvedermi dell’eccellenza della vostra battaglia. Mi pareva allora che la storia si imbattesse ancora una volta in uno di quei fastidiosi mutamenti di rotta che ne ritardano il corso, deviandolo provvisoriamente verso obiettivi di second’ordine, ma per quell’attimo considerati fondamentali. Ai miei occhi la qualità delle vostre istanze era perfettamente indifferente, per non dire conforme, alle esigenze dello sviluppo capitalistico ed il vostro atteggiamento mi pareva non diverso da quello, proverbiale, del citrullo che sfonda una porta in realtà aperta. Ma il tempo e l’evoluzione della vostra condotta mi hanno fatto ricredere e la riserva che allora nutrivo circa il particolarismo e l’insignificanza delle vostre rivendicazioni si è alfine sciolta; ed esse, giunte oggi alla maturità si presentano possentemente come pretesa assoluta di offrire al popolo un progetto positivo di vita qualitativamente diversa da quella finora vissuta. Simili al quarto stato che, non essendo nulla, avanzava la pretesa di diventare tutto, voi, donne femministe, vi presentate sulla scena della storia con un disegno che investe tutti gli aspetti della vita respingendo però – ed in ciò sta la vostra differenza rispetto al quarto stato e la vostra grandiosa modernità – tutte le forme tradizionali del dominio e della partecipazione politica. Ma interrompo subito l’elogio perchè l’adulazione è di pari danno a chi la porge e a chi la riceve, e non vorrei che lodi sperticate vi distogliessero dal compito immane che vi siete proposto. Mi soffermo invece a ragionare un poco del vostro progetto, benché mi sia difficile compendiarlo in una sola affermazione essendo esso per ora disperso in un’infinità di parole d’ordine, istanze, desiderata. Forse lo slogan più azzeccato per descrivere la positività che proponete è l’ormai celebre « Donna, è bello », evocativo del vostro rifiuto di continuare ad intendere la condizione femminile come maledetta da Dio e disprezzata dagli uomini; slogan a prima vista assolutamente insensato – destino peraltro comune a tutti gli slogans – che denota però, riflettendoci un poco sopra, il vostro desiderio di positività, sorta di fregola autorealizzativa, tratto distintivo di ceti ed individui che nulla mai hanno realizzato. E voi, ultime sulla scena della storia, avete affermato il vostro progetto di vita femminile con una sicumera perfettamente fuori luogo e fuori tempo. In ciò sta la vostra forza ideale, la sola oggi capace di portare soccorso all’ordine costituito, il quale, come si sa, cambia per rimanere sempre lo stesso. Avremmo mai potuto sognare noi – politici di un’epoca che sta chiudendo i conti con la politica – la strabiliante apparizione di un operaista, non importa se di vertice o di base, talmente audace da proclamare « Operaio, è bello », ovvero se preferisci, di un sociologo così sprezzante del pericolo da sostenere l’invidiabilità della condizione giovanile e studentesca? Fantasie siffatte da tempo avevamo dovuto riporle nel cassetto, sebbene con rimpianto: alcuni di noi per pavidità ed altri per percezione dell’indecente. E già ci eravamo adattati a vivere alla giornata, rattoppando alla meglio le lacerazioni del tessuto sociale, quando siete giunte voi a colmare, con una concezione della vita femminile adattabile con qualche ritocco anche al sesso forte, la paurosa carenza di valori che nel frattempo si era creata. Accorrendo all’SOS lanciato dalla società del capitale con una tempestività ed uno zelo di cui la storia è parca di esempi (se ti incuriosiscono le notazioni storiche e sociologiche posso ricordare per analogia il soccorso offerto all’ordine costituito dagli intellettuali di ogni bandiera da quasi un secolo), avete edificato il vostro grandioso ideale proprio nel momento in cui ogni positività politica aveva fatto fiasco, rimpiazzandola con una positività della vita quotidiana (« esistenziale » si sarebbe detto qualche lustro or sono) dalle fondamenta assai più solide, perché innescate in ogni ambito dell’operato umano, anche nei più riposti. Che cosa poi ci sia di allettante nella condizione femminile il vostro slogan non dice. Ma esso, pur vago, non può essere equivocato; non rivendica infatti né la condizione femminile come è stata vissuta finora, né come potrebbe esserlo in un immaginario futuro rivoluzionato. Lo slogan esalta invece la femminilità che può manifestarsi hic et nunc a condizione che la donna operi e lotti all’interno del movimento femminista, in solidarietà con le compagne, non più monade isolata, bensì parte di un tutto. Simile a quegli abiti lascivi che lasciano supporre il modellato di un bel corpo di donna, astenendosi però dall’esibirlo, la stupefacente efficacia della vostra formuletta, degna di un pubblicitario politico di prim’ordine, sta proprio nel fatto che essa dice e non dice, limitandosi a fare intuire chissà quale paradiso di delizie. Ma se si esamina in dettaglio l’operato giornaliero di una femminista media resta in verità con un pugno di mosche: guerra domestica circa gli oneri del menage per le conservatrici, pratica del lesbismo per le estremiste, militanza in qualche consultorio e sedute di « autocoscienza » (termine improprio che farà rivoltare nella tomba il povero Hegel) per le moderate. La mia analisi non è certo esauriente ma, per esser franchi, ho tralasciato ben poco. Che dietro allo slogan « Donna, è bello » non ci sia in realtà nulla di così bello da giustificare lo slogan è sì un segreto, ma un segreto di Pulcinella, un segreto pubblico. Ora, a dispetto di una casistica talmente povera di circostanze vissute, avete tuttavia saputo fondare con successo addirittura un movimento rivendicativo di largo seguito, capace di permeare con la sua concezione della vita estesi settori della società: ecco ciò che lascia noi – politici tradizionali – a bocca aperta, sinceramente stupefatti per la grandezza del risultato che state conseguendo con mezzi così ridotti! Ma se a prima vista la vostra riuscita pare inesplicabile, una riflessione meno frettolosa ci permette di comprendere le ragioni della vostra ascesa e quelle, sincrone, del nostro (intendo di noi politici) crollo. Gli è che i politici, quelli marxisti in testa, operarono nella convinzione – se erronea ovvero fondata sarà la storia a dire e mi auguro che il responso sia assai lontano nel tempo – che il proletariato fosse, per suo destino storico, « l’erede della filosofia classica tedesca » e quindi sempre lo governarono col rispetto intellettuale e morale che il suo legato gli attribuiva; voi invece, dotate di senso pratico assai più sviluppato, avete benissimo inteso che il popolino portava con sé un retaggio ben più misero, quello della suburra romana col suo sudiciume e la sua manifesta immoralità e, facendo leva su tali miserie, l’avete spuntata là dove noi politici avevamo fallito. Poichè, molto più radicalmente di noi, avete abbandonato ogni illusione circa il livello intellettuale e la sensibilità dei ceti più umili – i quali in regime democratico sono poi quelli che vanno blanditi e tenuti a bada – ed avete accettato il tenore delle rappresentazioni del popolo per quello che sono, cioè un pozzo di bassezze e trivialità, siete state perfettamente conseguenti con la vostra intuizione componendo il vostro programma con tranches de vie di evidentissimo naturalismo, certo più appetibili per i palati rozzi di quanto possa esserlo, diciamo, il periodare hegeliano o l’analisi economica di Ricardo. Ed infatti i temi preferiti del vostro programma sono presi dalla vita quotidiana del popolo, con netta predilizione per i casi più piccanti e per le vicende più avvilenti: aborto, sessualità mal vissuta, guerra domestica, lesbismo, figli bastardi, cicaleccio femminile: ecco i tristi casi della vita su cui tenete banco al popolo, come sempre morbosamente attento a chi gli parla delle sue tribolazioni e dei suoi vizi. Tuttavia, a differenza di generi teatrali quali il mimo dei romani e la commedia dell’arte che su queste bassezze umane ridevano sguiatamente, voi, al contrario, siete serie e volete, per di più, che vi si prenda sul serio. Quel tanto di frondista (che era in verità assai poco) un tempo riposto nelle zone oscure dcl tessuto sociale, indifferente agli imperativi della religione, dello Stato e dell’economia, designato abitualmente con l’espressione « vita privata » e che prorompeva a sprazzi in sguaiatezze fragorose od in immoralità patenti, fuggendo la banalità della vita comune talvolta verso l’operato artistico e talaltra verso quello concreto, il vostro programma d’azione lo ha neutralizzato, rendendolo sterile merce la sua trasformazione in argomento di serio dibattito culturale e di meeting politico. Tutte le attitudini umane che sono cadute sotto le vostre grinfie (e poche ne avete lasciate vacanti) da lascive, piccanti, oscene, sensuali, sono diventate castrazioni degne di figurare in trattati o saggi, ma non certo desiderabili sul piano della sensibilità concreta. Non sarò certo io a sostenere che i moti sensuali, una volta svelati del tabù che li avvolge, perdono di attrattiva. Ma – andiamo! – c’è modo e modo di discorrerci sopra. Un conto è discorrere dell’amore in un corso di igiene sessuale ed altro è parlare d’amore in un’alcova. Grazie a voi siamo finalmente giunti al punto in cui, ovunque, si parla come in un consultorio prematrimoniale o in un trattato di psicoterapia. A riprova del mio assunto valga un’osservazione personale. Quando la sera, libero da impegni politici, posso trascorrere qualche ora nello studio o nella riflessione, spesso sono testimone del ritorno a casa di mia figlia, la maggiore, con la quale d’abitudine mi intrattengo un poco. Talora si presenta a me rossa in volto e coi capelli scarmigliati. Azzardo allora a chiederle, con una lieve petulanza giustificata però dalla confidenza che ci lega, in che modo ha trascorso la serata e la benedetta mi risponde immancabilmente: « Sono stata da X ed ho avuto un buon rapporto ». Saranno fatti suoi, non ne discuto, ma non è certo una risposta tale da trasmettere una ventata di complice sensualità in un padre aperto e democratico come posso vantarmi di essere. Ma ciò che temo sommamente è che essa lo chiami « rapporto » non solo con me, ma anche coi suoi coetanei e compagni e, incredibili dictu, addirittura col partner. Grazie all’operato delle femministe – ma devo riconoscere che la contestazione studentesca vi aveva già aperto la strada – la vita, di cui è pur sempre lecito dare una descrizione a parole, può essere descritta oggi soltanto attraverso gli stilemi del saggio. Nella descrizione delle circostanze umane l’astrazione sterilizzante si è impadronita del concreto infetto trasformando la materialità in idealità, la volgarità in nobiltà. Come dalla lingua dotta si passò al volgare, così assistiamo oggi alla trasformazione del volgare in astratto. E’ questo un sintomo non di poco conto della degenerazione contemporanea perché, come dice Seneca, « ubicumque videris orationem corruptant placere, ibi mores quoque a recto descivisse non est dubium ». Tutto viene detto come se si stesse scrivendo un saggio ed i casi della vita non fuoriescono poi dai binari linguistici che li descrivono, astraendosi essi stessi. Che questo fenomeno non possa essere ridotto al semplice conformismo intellettuale di sinistra che si nutre di luoghi comuni, come sostengono invece certi sapientoni dell’Espresso, risulta evidente se solo si pone mente al fatto che non esistono più « sporcaccioni » ma solo « liberi gestori del proprio corpo », non più « debosciati » ma brava gente che « fa le proprie esperienze », non « fighe bagnate e cazzi duri » bensì « buoni rapporti ». Se sia la carne ormai mummificata ovvero il pensiero del tutto esangue a fungere da becchino della carne viva è quesito per me insolubile. Certo è, però, che in questo processo di becchinismo generale voi femministe, a dispetto della sensualità proclamata, avete dato il vostro prezioso e insostituibile contributo. Sarà facile obiettare che il mio argomentare conduce dritto dritto alla scurrilità del postribolo e della caserma, veri e propri santuari della misoginia espressiva, ma non è così. Ciò che auspico, malgrado l’apparenza contraria, è ben altro, e precisamente che i codici linguistici che voi avete sviluppato con tanta perizia diventino patrimonio generale e che le poche oasi dove la parola scorre ancora, fluente e sensuale, siano alfine prosciugate. Che si parli astratto, che si scelga sempre l’espressione più artefatta, che si riformino i dizionari depennandone le parole più sensuali ed evocative, che ci si esprima da saggista anche nella taverna, nel vespasiano, nell’alcova! Chi potrà ancora concupire sapendo che l’oggetto della sua concupiscenza chiamasi « rapporto »? Chi sarà ancora invogliato a correre l’avventura sapendo che il proprio operato rientrerebbe nella voce « fare le proprie esperienze »? Chi potrà godersela a spiattellare i fatti propri ed altrui ove il suo agire venga detto , « esprimersi »? L’interiorità – diceva Nietzsche – « gelernt hat, sprunge zu machen, zu tanzen, sich zu schminken, mit Abstraction und Berechnung sich zu aussern und sich selbst allgemach zu verlieren ». Pazienza! Ma la situazione che ne seguirà sarà socialmente più ordinata e le parole, rese innocue, cesseranno per sempre di costituire un fattore di sovversione nelle bocche di sconsiderati sempre pronti a impiegarle a man bassa, ma mai nell’accezione consentita. I tempi della grossolanità e del disordine definitorio devono concludersi. Un vecchio broccardo così spiegava il contenuto del matrimonio: « Boire, manger, coucher ensemble c’est mariage, ce me semble ». Una concezione brutale, riduttiva, che oggi farebbe inorridire qualsiasi progressista; bere, mangiare e dormire insieme pare un pò poco ai contemporanei, soprattutto non pare essere un rapporto coniugale. Ma lo zoticone che escogitò questa formula lapidaria aveva tuttavia una sua grandezza: descriveva la sua realtà ridotta ma corposa, con i termini che più gli erano vicini e che meglio esprimevano il suo grossolano appetito; sapeva quel che voleva e lo diceva, e il cosiddetto contesto non gli permetteva forse di volere altro. Era un porco insomma, e non lo negava. Se un uomo d’oggi osasse enunciare tale aforisma in un vostro consesso avrebbe certamente la vita dura e lo si taccerebbe, nella più blanda delle ipotesi, di desiderare un oggetto, non una donna, la donna-oggetto appunto, come ora è invalso l’uso di designarla. E la sua sorte sarebbe ben meritata perché costui infetterebbe con la sua trivialità quella purezza di rapporti interpersonali che voi cercate di instaurare. L’oscenità del suo pensiero non potrebbe fare a meno di ripercuotersi in un conseguente operato lubrico, disturbando così l’asettica convivenza dei consociati. Andrebbe rieducato, quanto meno, con ripetute sedute psicoterapeutiche. Mi par fuor di discussione infatti che in una società socialista la norma fondamentale si riduca in fondo all’assoluto rispetto della personalità altrui, come voi pretendete che si faccia con le donne, vittime fino ad oggi di irriverenti attenzioni. Paradossalmente si potrebbe dire che il socialismo collocherà ciascuno sotto una campana di vetro, in assoluto isolamento sensibile; sarebbe questo il modo più radicale per ottenere il mutuo rispetto. Galanterie ferro-tranviarie e complimenti di bassa lega sarebbero piaghe finalmente debellate. Il pianeta verrebbe così trasformato in un museo vivente, perché sono i musei appunto i luoghi in cui ogni cosa è sommamente rispettata, i santuari in cui si guarda, ma non si tocca; ciascuno, restaurato dalle incrostazioni antiche che lo ricoprono, potrà allora essere presentato al pubblico: questo è il senso della rieducazione intellettuale e morale per cui tanto vi battete. Ma un museo di pezzi identici non alletta certo l’osservatore che desidera soprattutto un rapido susseguirsi di immagini. Perciò non andrà chiesto all’individuo di rinunciare alla propria differenza, al proprio unicum, alla propria specificità. Non temete: potrete coltivarvi in santa pace il vostro « specifico femminile ». Quel che conta è che questa gran fioritura di differente non sia utilizzabile in alcun modo, se non per essere contemplata. Un grande romanziere che certo non amate e che quindi non nomino sentenziava che « il existe detux grandes espéces de petites amies, celles qui ont ‘ les idées larges ‘ et celles qui ont reçu ‘ une bonne education catholique ‘. Deux façons – proseguiva l’infame – aux miteuses de se sentir supérieures, deux façons aussi d’exciter les inquiets et les inassouvis… ». L’osservazione, se spogliata della sua misoginia, mi pare acuta; ed in effetti incontro oggi donne combattive, le femministe, e donne rassegnate, le altre. Ma quanto poi al fatto che tale bipartizione in ruoli ecciti la domanda degli inquiets, mi si consenta di dissentire. La scoraggia al contrario perché l’incauto che azzarda qualche proposta non proprio irreprensibile sa a priori con che salsa verrà soddisfatto il suo appetito e nulla gli resterà da magnificare post prandium. Un futurista di secondo piano avanzava invece la classificazione seguente: « Le donne si dividono in una sola categoria: donne belle. Gli uomini in tre categorie: uomini ricchi, uomini poveri e donne brutte », freddura un pò cinica che non manca però di potere di corrosione. Il nostro non poteva immaginare che oggi, purtroppo, l’unica categoria femminile che meriti tale qualificazione sta assottigliando le sue file a vista d’occhio, a dispetto dei progressi nel settore della cosmesi, ormai divenuta consumo popolare. Ma – si sa – l’unico belletto miracoloso è la libidine, attitudine ormai estinta. Essa infatti viene alimentata dalla libertà di pensiero e di parola spinte talmente in avanti da diventare licenza nell’azione. E dove mai si trova oggi la licenza nel pensiero e nell’azione se si pone mente al fatto che tutto, grazie alla problematizzazione vostra e dei vostri simpatizzanti, viene designato con astrazioni, in modo massimamente anodino? Ogni cosa viene perciò ingabbiata dentro l’astrazione che le compete e la gabbia cela la verità pratica che la cosa porta con sé. La forza dell’astrazione sta proprio in questa sua magnifica attitudine nel celare e nell’isolare la verità. Voi femministe avete contribuito in sommo grado a quest’operazione sociale di occultamento della verità pratica, specialmente nell’ambito della cosiddetta vita quotidiana, portando così a compimento l’opera di falsificazione dei bisogni umani che la politica aveva appena intrapreso. Forse perché troppo angariate da una realtà che per secoli vi aveva compresso, avete preferito abbandonare la partita scegliendo la via della verità astratta, disgiunta da ogni impiego. Due secoli fa Casanova affermava che « la véritè se tient cachéé dans le fond d’un puits, mais lorsqu’il lui vient le caprice de se montrer, tout le monde étonné fixe ses regards sur elle, puisque elle est toute nue, elle est femme et toute belle ». Aveva torto: non poteva sapere che il movimento femminista si sarebbe distinto nell’opera di occultamento della verità, dell’unica verità che dispensa favori, quella pratica appunto. Mettetevi all’opera compagne! Il lavoro è appena iniziato e tanto resta ancora da fare nella rieducazione intellettuale e morale delle masse, quelle maschili in particolare. E’ universalmente noto che in certi circoli si parla ancora di « culo » e, quel che è peggio, con sensuale compiacimento, talora mettendolo addirittura in relazione con l’azione del « pizzicare »; altrove si usa calunniare la masturbazione femminile designalidola con la parola, schifosa se ce n’è una, « ditalino »; nel corso di una noiosa seduta parlamentare mi è toccato rimbottare un collega, non più giovane, che per manifestare apprezzamento circa le qualità, non certo intellettuali, di una neodeputatessa aveva fatto uso dell’espressione « tocco di figa ». Gli esempi potrebbero continuare. E’ vostro compito individuare e stigmatizzare il losco che può celarsi in ogni discorso, in ogni parola, ricorrendo se del caso alla collaborazione di esperti in semantica di provata fede. Infatti, o riuscirete a realizzare la sterilizzazione del linguaggio oppure siete destinate in breve a sparire in quanto movimento e ad essere riassorbite nel sistema di valori maschili. Dalla parte degli uomini non credo vi verranno frapposti impedimenti. Temo invece che qualche resistenza verrà attuata da certe donne. Non sono le tradizionaliste a preoccuparmi poiché sono certo che riuscirete con pazienza a convertirle alla vostra causa; si tratta invece di una categoria specialissima di donne non riconducibile al binomio femminista-tradizionalista, non facile da designare, ma di cui vale la pena fare l’identikit per avere chiari i connotati del pericolo da fronteggiare. Nella mia infanzia la fanciulla dai modi particolarmente vivaci veniva chiamata « maschiaccio », parola oggi caduta in disuso e ben a ragione. Forse si potrebbe coniare, se già non esiste, il neologismo « femminaccia » per significare ciò che ho in mente. Dovrebbe trattarsi – e temo che qualche esemplare sia già in circolazione – di una donna scarsamente addomesticata dalla cultura e dall’educazione, per nulla incline a riconoscersi in una causa determinata, nemmeno nella causa del suo sesso perché conscia dell’assoluta indifferenza dell’una o dell’altra dotazione genitale, dall’uzzolo e dal capriccio facile, oziosa, incapace di distinguere le proprie voglie da quelle altrui e quindi così naive da non discernere la soggettività dall’oggettività e il serio dal faceto, sensuale per suo gusto e non per dogma, ed infine – ciò che è fondamentale – perfettamente addestrata nell’accomodarsi con fare sguaiato sullo sgabello di un piano bar. Le attitudini che ho descritto a mò di esempio, incontestabile sale della vita, si riscontrano oggi molto raramente e quasi mai concentrate in una stessa donna. Non accusarmi, cara amica, di modellare un’immagine femminile a mio uso e consumo, sulla base dei miei desideri frustrati. Questo è invece il modello di donna che non desidero affatto veder sorgere perché la sua comparsa coinciderebbe con lo sfacelo dell’ordine civile. Potrebbe ancora chiamarsi società un tòpos in cui le donne, in luogo di esigere l’aborto libero e gratuito od altre insipidezze del genere, pretendessero sfacciatamente di vivere, non più sulla carta bensì nella carne, avventurette piccanti come quella di Biancaneve coi nanerottoli – fin troppo sfruttata dalla pornografia alternativa – od altre simili da escogitare? E, ove le donne fossero colte da simili sfrenatezze, che ne sarebbe di noi uomini? Ti confesso di avere in mente il mio caso personale e quello di tanti compagni. Come potremo guadagnarci la solita porzione di figa in umido se le donne, per puro vizio, pretendessero all’improvviso di essere rapite dai Saraceni, di spassarsela nel paese dei balocchi od altri simili ghiribizzi? Sarebbe la fine del montone democratico il quale finora se l’è cavata con la masochistica digestione di cibi scotti e di noiose istanze femminili. A questo figuro, patetico e ridicolo nel contempo, nuovo volto della commedia dell’arte, non è mai stato chiesto null’altro se non il laissez faire, il subire, il tollerare che altre facciano, riducendolo, in una parola, al rango di suppellettile domestica; prezzo ben modesto per la sua accettazione nell’ambito della benevolenza femminile. E’ stato sollecitato ad agire come supporter di una causa che lo lascia freddo, diffidandolo in più dal manifestare uno zelo eccessivo, ciò che potrebbe mettere in ombra le donne stesse ed il loro operato. E’ bene che questo reietto resti nel brodo in cui l’avete cucinato di cui peraltro ha fornito egli stesso gli ingredienti: è in gioco l’ordinato sviluppo della società. Guai se in un giorno infausto le donne chiedessero agli uomini come prezzo delle piacevolezze che sanno offrire non più la sopportazione bensi l’azione e – quest’ultima – non più condotta nell’ambito delle realizzazioni economiche – come alcune amabili bagasce d’altri tempi hanno saputo esigere -, ma invece in quella sfera particolare che taluni hanno definito « realizzazione dell’arte »! Ma se opererete come avete mostrato di sapere perverremo finalmente ad una società completamente inerte dalla quale i torbidi e le avventure saranno banditi per sempre. Forse la piacevolezza della vita ne potrebbe soffrire, ma ne avrà però giovamento l’addomesticamento umano che è esso, e non quella piacevolezza, lo scopo dell’attività politica, tradizionale o femminista che sia.
(3) Adele Faccio, laureata in filologia romanza all’Università di Genova, ha partecipato alla resistenza in Liguria. Nel 1973 ha fondato il CISA (Centro informazioni sterilizzazione e aborto) di cui è attualmente presidente che, fra i suoi fini istituzionali, annovera anche la sterilizzazione irreversibile della parlata. E’ appunto in considerazione di tale compito che Berlinguer le si rivolge.