di PAOLO SPIGA
E quattro. Eni fa il poker d’inchieste per corruzione internazionale. Dalla “Lava Jato” che ha appena mandato in galera l’ex presidente brasiliano Lula Ignacio da Silva, a quelle per le mazzette in terra africana, dall’Algeria alla Nigeria. E adesso anche al Congo.
Sempre protagonisti tribunale e procura di Milano. Sul fronte delle tangenti algerine, infatti, sta per concludersi il processo a carico di Eni (e del suo ex presidente Paolo Scaroni) e della controllata Saipem. Mentre è in fase di decollo quello per le mazzette nigeriane.
Veniamo all’ultimo caso, l’affare Congo. Al centro delle indagini un pezzo da novanta dello staff di vertice del colosso energetico. Si tratta di Roberto Casula, da metà 2014 “Chief Development Operations & Technology Officer” di Eni, il plenipotenziario del cane a sei zampe nel continente africano, con particolare riferimento all’area occidentale.
Rispetto agli altri scenari corruttivi, stavolte c’è una variante. Il fronte, infatti, secondo gli inquirenti milanesi è doppio. Da un lato ci sono i giochi societari intrecciati da politici e faccendieri congolesi, attraverso la creazione di sigle che diventano comodi contenitori per ricche tangenti.
Dall’altro ci sono gli intrighi griffati Eni, che riconducono alla figura di Casula, il quale dirige da alcuni anni un settore base nelle strategie di casa Eni, ossia le attività di esplorazione e produzione dei pozzi petroliferi. E Casula lavora in strettissimo contatto con il numero uno di Eni, Claudio Descalzi, che – guarda i segni del destino – cominciò proprio in Congo la sua carriera all’interno del big petrolifero, nel 1994.
Secondo le ricostruzioni effettuate dai pm meneghini, a Casula è riconducibile la società WNR, acronimo di World Natural Resources, una sigla inglese che circa quattro anni fa ricevè dalla congolese AOGC (Africa Oil and Gas Corporation) una bella fetta dei suoi diritti di esplorazione, quasi un quarto del bottino totale.
Tra gli intermediari dall’affare un altro dirigente Eni, Maria Paduano. E tra Casula e Paduano – è una delle prove acquisite dai pm della procura di Milano, Sergio Spadaro e Paolo Storari – meno di un anno fa, per la precisione a giugno 2017, si è verificata una compravendita immobiliare, un appartamento a Roma da 1 milione 150 mila euro finito a Casula. Insomma, una bella ragnatela d’affari.
Parziale cambio al vertice in casa Saipem, oggi controllata al 30,5 per cento da Eni e al 12,5 dalla neo entrata Cassa Depositi e Prestiti. Confermato nella carica di amministratore delegato Stefano Cao, mentre si insedia come presidente Francesco Caio, l’ex numero uno di Poste Italiane voluto su quella poltrona dall’allora premier Matteo Renzi.
Preoccupano, in casa Saipem, sia i conti che le inchieste. Sul primo versante, si registra un meno 328 milioni per il bilancio 2017 e ricavi in calo del 10 per cento; mentre l’inizio 2018 non è stato certo dei più rosei, con un meno 16 per cento nella quotazione del titolo in borsa.
Pesa, poi, la querelle con la Consob, che vuole maggior chiarezza sul bilancio 2016. Saipem, invece, sostiene di avere i documenti in regola e si oppone alla richiesta. Bufera in vista.
E un ciclone può arrivare non solo dall’Africa, per le solite mazzette, ma soprattutto dal Brasile, per via della duplice inchiesta: sia le piste di corruzione internazionale seguite dalla procura di Milano, sia la “Lava Jato” che sta sconvolgendo il Brasile, con l’impeachment del presidente Dilma Roussef e ora la galera per il suo predecessore e méntore, il compagno Lula.
Sotto inchiesta per la tangente del secolo (5 miliardi di dollari accertati, forse si arriverà a quota 20) versata da Petrobras, sono sia Eni che Saipem, cui tiene compagnia il colosso privato Techint che fa capo a Gianfelice Rocca e alla sua dinasty.