di MOWA
Una delle cose che le persone perbene non riusciranno, giustamente, mai a giustificare sono i decessi nei luoghi di lavoro dove le attività vengono svolte da personale ignaro dei rischi che quel tipo di mestiere comporta, e dove, spesso, mancano le più elementari norme di sicurezza, non c’è materiale antinfortunistico, vi è la presenza di materiale inquinante (sia gassoso che solido)… ed, inoltre, l’incosciente imprenditore o i suoi stretti collaboratori non hanno fornito le dovute informazioni.
Chi disgraziatamente muore sul posto di lavoro, però, non deve essere solo compianto ma deve essere elemento di ulteriore riflessione sulla sicurezza per chi rimane perchè prenda i giusti accorgimenti aumentando la prevenzione.
Prevenzione, però, che non si dovrebbe fermare alla sola azienda ma, anche, al corollario abitativo che c’è intorno al sito produttivo (come previsto dagli artt. 32, 41 e seg. della Costituzione) come avrebbe dovuto essere per l’Ilva di Taranto, le “centrali a carbone Enel di Porto Marghera, La Spezia e Porto Tolle, […] Eni di Priolo, in Sardegna, […] lo stabilimento chimico Tessenderlo a Pieve Vergonte (Verbania)”, la “raffineria Saras (la società della famiglia Moratti)”, il “polo petrolchimico di Gela, quello siracusano (Augusta-Priolo) e le raffinerie di Milazzo (Messina)”…
Le morti bianche sul posto di lavoro non sono, solo, una piaga italiana ma, anche, per il resto del mondo.
Poi, oltre alle morti bianche e dirette sui luoghi di lavoro, ci sono quelle in differita.
Ovverosia, quelle morti che non sembrano appartenere a quell’attività specifica, ma che hanno, soprattutto nel loro triste epilogo, circostanze molto simili; come il caso di David Rossi precipitato dalla finestra del suo ufficio del Monte dei Paschi di Siena o quello di Gianluca Griffa, ex responsabile dello stabilimento Eni lucano, scomparso e poi trovato impiccato nell’agosto del 2013.
Sorprendenti morti di persone che erano a conoscenza di forti implicazioni dei veri responsabili di disastri sociali, siano essi di carattere finanziario o ambientale, morti provocate con suicidi che non reggono in tutte le loro implicazioni: personali, relazionali, motivazionali, tecnico-dinamiche…
Decessi, questi ultimi, che faticano a trovare la strada di un giusto riconoscimento perché coloro che frappongono “bastoni fra i raggi” sono, quasi sicuramente, ben piazzati e coperti.
Una reale ragnatela di connivenze e omertà che farebbe rabbrividire il miglior giallista.
Una provocazione di suicidi che si può pensare e definire seriale servita a non far emergere tristi verità ma che testimonia quanto il malaffare sia penetrato in case insospettabili e di apparente rispetto di una certa società bene ma che, sfortunatamente, non è dissimile dalla cultura mafiosa.
Una cultura fatta di soggetti senza scrupoli e basata sulla morte, che abbiamo avuto il dispiacere di conoscere bene nelle aule di tribunale e che non indietreggia di fronte a nulla e nessuno (spesso, sopprimendo esseri umani) pur di gonfiare le loro tasche di denaro.
Un sistema bacato basato e incentrato su disvalori e privazione della felicità collettiva… ma che non potrà, sicuramente, farla franca in eterno perché sono, fortunatamente (in percentuale), in numero inferiore alle persone per bene. C’è solo la necessità di organizzarsi bene per rimuovere i meccanismi che la rigenerano.