Articolo datato ma che lascia molti interrogativi aperti…
MOWA
Cronaca&Dossier dedica uno speciale alla morte di Antonio Varisco con approfondimento firmato dal giornalista Tommaso Nelli, il quale ha consultato le carte dell’inchiesta sull’omicidio e soprattutto l’agenda del Colonnello, sottolineando tutte le incongruenze di una storia che non convince con i troppi dubbi sul ruolo delle Brigate Rosse e i misteri sull’ultimo impegno di Varisco in un’importante azienda farmaceutica italiana
Confluita nel processo Moro dopo un improduttivo anno di investigazioni, l’indagine sul delitto di Antonio Varisco ebbe una prima svolta alla fine del gennaio 1982 quando a Padova, nell’ambito dell’operazione che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, i NOCS arrestarono una cellula delle Brigate Rosse. In essa vi era anche Antonio Savasta, nome di battaglia “Diego”, che si autoaccusò dell’omicidio chiamando in causa gli altri elementi del commando: Francesco Piccioni, Odorisio Perrotta, Rita Algranati e Cecilia Massara. Alcuni di loro saranno condannati nel “Moro-bis”, altri nel “Moro-ter”, ultime occasioni nelle quali sarà menzionato il nome dell’ufficiale dalmata. Da quel momento la sua figura cadrà nel dimenticatoio nonostante la sua morte avesse destato cordoglio e scalpore. Perché uccidere un uomo che non ricopriva un ruolo di primaria importanza e che a fine luglio avrebbe lasciato l’Arma? E perché con una modalità decisamente insolita, di stampo mafioso, adoperata in precedenza dalle BR nell’attentato alle guardie delle Carceri Nuove di Torino nel 1978?
Perplessità che si tramutano in contraddizioni nella ricostruzione dell’operazione. Il 3 febbraio 1982, al procuratore di Verona Guido Papalia, Savasta disse che l’azione Varisco era nata ed era stata eseguita dopo la gogna a Pierluigi Camilli, giornalista RAI in quota Dc, ammanettato alla cancellata di casa con un cartello al collo la sera del 14 febbraio 1979. Sempre Savasta però alla Corte d’Assise di Roma nell’aprile dello stesso anno affermò che l’indagine su Varisco era stata condotta da Gallinari assieme alla Braghetti e alla Algranati, riferendosi così alle insoddisfacenti ricognizioni compiute dalle BR a fine ’77 in via del Babuino, dove abitava il colonnello, che portarono a un accantonamento dell’inchiesta. Emilia Libera, fidanzata di Savasta, nello stesso dibattimento dichiarò: «L’azione era stata progettata, con un altro nucleo di cui doveva far parte Arreni, per dicembre ’78. Slittò per l’irregolarità degli orari di Varisco». A suo sostegno, una brigatista meteora: Norma Andriani. Nelle BR da maggio ’78 a febbraio ’79, trascorse la sua militanza a studiare l’Arma e in particolare la figura di Varisco, come risulta agli atti del “Moro-bis”.
Poca chiarezza anche sulla conoscenza dell’imminente pensionamento di Varisco. Per Savasta la notizia era ignota, nonostante l’inchiesta fosse in continuo aggiornamento, salvo poi ritrattare che le BR non avevano creduto a questa voce. Infine, altro banco di nebbia sulla strada della verità, i “falsi storici” del volantino di rivendicazione delle BR.
Nessun pestaggio in aula di Varisco verso Maria Pia Vianale e Franca Salerno durante il processo ai Nap iniziato nel maggio ’79. Prima della morte del Colonnello infatti l’unico dato di rilievo era stato il duplice rinvio dell’udienza a data da destinarsi poiché i terroristi avevano revocato i loro avvocati. Inoltre il volantino risultò anomalo anche per la temporalità della sua composizione. La rivendicazione scritta degli scempi delle BR avveniva sempre nella giornata stessa della loro realizzazione mentre quella per Varisco arrivò il 17 luglio, come scritto in fondo al documento che però Savasta davanti la Corte dichiarò essere stato composto precedentemente l’attentato.
Meritevole d’interesse la deposizione del giovane carabiniere Giuseppe Coderoni: «Mercoledì 11 c.m. mentre espletavo un servizio di piantone al comando Legione Lazio, in piazza del Popolo, si presentava un signore che sceso dalla Fiat 130 bleu mi chiedeva dove abitasse il colonnello Varisco. Io rispondevo di non essere al corrente per cui lo sconosciuto replicava che il Colonnello abitava in via del Babuino però non sapeva il numero civico. Al che io replicavo ancora una volta di non avere minima idea in merito. Successivamente lo sconosciuto mi chiedeva se vi fossero dei garages in via del Babuino, al che io rispondevo che da quanto mi risultava in via del Babuino non vi erano garages, però nei pressi ve ne erano due, di cui uno ubicato in via S. Sebastianello e lo altro in via Belsiana».
All’epoca la Fiat 130 era una cosiddetta “auto blu” e nelle foto segnaletiche Coderoni non riconobbe quell’uomo vestito come un autista ministeriale, che mai più rivide. Sparirono nel nulla anche i due giovani notati da Maria Teresa Alfieri giocare a tennis alle 7.00 del mattino nei due giorni precedenti il delitto. Nel 1979 Roma era già teatro degli Internazionali d’Italia. Ma al Foro Italico, sulla terra battuta. Non sui sanpietrini all’incrocio fra via Alibert e via Margutta. Dove abitava la signora e dove il palazzo di Varisco aveva un secondo ingresso. Gli inquirenti non approfondirono così un episodio molto simile a quanto avvenuto dal 13 al 15 marzo 1978 a via Belli, sterrata traversa privata di via Trionfale, a 800 metri da via Fani, dove quattro giovani smontarono e rimontarono il motore della loro Fiat 500 dal primo pomeriggio al tramonto.
La mattina del 16 marzo, da quella strada, transitarono le macchine con a bordo Moro prigioniero. Quel giorno Varisco fu tra i primi ad arrivare sul luogo dell’eccidio assieme al sostituto procuratore Luciano Infelisi. Un mese più tardi i due entreranno nel covo brigatista di via Gradoli e la loro fotografia mentre scavalcano l’inferriata sarà rinvenuta, con tanto di croce rossa sulle loro figure, nell’appartamento di viale Giulio Cesare dove abitavano Valerio Morucci e Adriana Faranda. E il 15 marzo 1979 Varisco, in un appunto consegnato al magistrato Achille Gallucci, Varisco scrisse come «uno sconosciuto, probabile informatore» gli avesse rivelato che «l’on. Moro sarebbe stato prigioniero in una casa abitata di Focene».
Oltre a Infelisi e Gallucci, Varisco era amico di altri magistrati. Come Ugo Niutta, uomo di fiducia di Bisaglia nella gestione delle partecipazioni statali, presidente della Farm-Italia-Carlo Erba, azienda dove il Colonnello si sarebbe trasferito per importanti compiti di sorveglianza dopo la pensione, e amico di Eugenio Cefis, numero uno di ENI e Montedison, a sua volta in ottimi rapporti con Varisco al punto da affittargli a prezzo simbolico la casa di Sperlonga per trascorrere i week-end in compagnia della giovanissima fidanzata, Cristina Nosella. Un rapporto certificato anche dalla presenza dell’indirizzo di Niutta nell’agenda di Varisco, altro elemento mai approfondito con la dovuta attenzione. In essa si trovano infatti molteplici conoscenze altolocate – l’ambasciatore olandese S.J.J. Van Voorst tot Voorst, residente in un irenico maniero alle porte dell’Appia Antica; i magistrati Bruno, Guasco e Zucchini; gli avvocati Vitalone e Gaito; qualche antiquario – ma soprattutto ben 47 utenze su 95 risultate inesistenti, inattive, non rintracciabili o non collegate dopo gli accertamenti effettuati dagli uomini del tenente colonnello dei carabinieri Di Petrillo nel 1989, a dieci anni dalla morte di Varisco, per verificare eventuali collegamenti con il “falsario di Stato” Tony Chichiarelli, che ad amici vantava d’aver sotterrato per mesi, nel giardino di casa, la lupara dell’attentato.
Anomalie e misteri. Come il suo effettivo rapporto con Mino Pecorelli, incontrato ben 42 volte dopo via Fani e sulla cui rivista OP – Osservatore Politico scriveva la stessa Nosella, che nel processo di Perugia ricordò le reiterate e pesanti minacce di morte subite da lei e Varisco all’indomani della morte del giornalista. Parole cadute nel vuoto e impossibili da approfondire perché la donna è morta nel 2006.
Trascorsi trentacinque anni dalla scomparsa di Varisco, al di là della verità giudiziaria recante comunque più d’un’incongruenza, i numerosi interrogativi fin qui sollevati permangono e sono da sciogliere se si vuole la verità storica su un uomo poliedrico, sempre dedito al suo lavoro, ma con la passione dell’arte, del cinema e delle belle donne. Perché la mancanza di queste risposte non potrà che dar sempre ragione a quell’ex brigatista che nel novembre 2012, dal cortile della sua abitazione, liquidò la mia curiosità con celere stizza: «Di certe storie si sa solo quello che si deve sapere!».
articolo di Tommaso Nelli
21 maggio 2015
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