Ci risiamo. Dopo la sentenza della Consulta che dichiara insussistente il “legittimo impedimento” rivendicato da Berlusconi per ostacolare l’iter del processo Mediaset, toccherà alla Suprema Corte, presumibilmente entro l’inverno, chiudere il cerchio. Se – come pare probabile – le condanne di primo e secondo grado saranno confermate, diventerà operativa anche la sanzione accessoria che prevede l’interdizione a cinque anni del capo del Pdl dai pubblici uffici. L’articolo 66 della Costituzione prevede tuttavia che sia il Senato, cioè il ramo del parlamento ove siede il Caimano, a doverne confermare col voto la decadenza, spalancandogli contemporaneamente le porte del carcere.
L’uomo ora si indigna ed inveisce contro il “complotto persecutorio delle toghe rosse”, ma capisce che le urla e gli strepiti dei suoi “famigli” non lo porteranno lontano. E allora, da consumato piazzista (e da profondo conoscitore dei propri interlocutori e delle loro debolezze) tenta un baratto con il Pd. Che più o meno suona così: “Voi mi garantite che quando verrà l’ora vi opporrete alla mia decadenza; ed io – lealmente – garantirò la continuità del governo Letta-Alfano.
L’asimmetria della posta oggetto del possibile scambio è a dire il vero clamorosa: perché ognuno può capire come il sostegno all’esecutivo dovrebbe dipendere dalla realizzazione di un programma condiviso e non già dal salvacondotto eventualmente offerto all’ex premier per neutralizzare gli esiti delle sue disavventure giudiziarie. Ma che Berlusconi ponga il proprio interesse personale al di sopra di ogni altra cosa, ivi compresi i destini dell’Italia e degli italiani, è cosa nota sin dalla sua “discesa in campo” nel lontano 1994.
Dunque la strada è tracciata. E da qui in avanti, fra blandizie, minacce, ricatti, dovremo attenderci di tutto. Perché tutto sarà tentato.
Il 9 luglio andrà in scena un’anteprima, quando a palazzo Madama comincerà la discussione sull’ineleggibilità di Berlusconi. Ma su questo il Pd si è già pronunciato: voterà contro, malgrado il mastodontico conflitto di interessi che rende la posizione dell’ex premier un “unicum” nel mondo politico occidentale e benché il dissenso in casa democratica sia più forte di qualche semplice mal di pancia. In ogni caso, salvo sorprese, quello scoglio verrà superato. Ma altra e diversissima cosa sarà quando il Senato, con tre livelli di giudizio alle spalle e una sentenza passata definitivamente in giudicato, dovesse assumersi la responsabilità di vanificarne il responso, salvando di nuovo Berlusconi, sulla cui testa potrebbero nel frattempo cumularsi altre condanne, nel processo Rubi, per concussione e prostituzione minorile e in quello di Napoli, per corruzione e compravendita di parlamentari.
Come farebbe il Pd a reggere una prova simile senza scontare un contraccolpo nell’opinione pubblica di area progressista e una rivolta della propria base dalle conseguenze catastrofiche?
Se lo chiede anche un anonimo senatore democrat che confessa al cronista di Repubblica: “Se io voto per mandare al macero una sentenza definitiva contro Berlusconi, poi mi devo dare alla macchia. Con che faccia mi presento nel mio collegio? Non potrei nemmeno passeggiare per strada. Non esiste, il baratto che ci propone il Cavaliere non può essere accettato”.
Eppure ci sono altri, nel board di quel partito, che sarebbero pronti a qualsiasi acrobazia. E dal Colle stesso potrebbe venire qualche “consiglio” in termini di realpolitik. La vicenda politica italiana – come per un inestinguibile sortilegio – continua ad essere inchiodata alle sorti dell’uomo che volle farsi re. Ma il destino, in queste cose, non c’entra per nulla. Il Sultano di Arcore non ha fatto tutto da solo. Vi hanno concorso, in misura decisiva, la pulsione autodistruttiva della sinistra, la sconfitta “storica” del movimento operaio ridotto alla più desolante marginalità, la riduzione della democrazia al rito plebiscitario della scelta di capibastone a cui fideisticamente immolarsi.
Intanto le politiche di austerità si riproducono in automatico, con disarmante continuità, malgrado i rovesci economici e sociali di cui sono responsabili: soldi alle banche, tagli alla spesa sociale e ai salari, disoccupazione in crescita esponenziale, imposte indirette fuori controllo, tasse sul lavoro. E nessuna idea su come venire fuori dall’avvitamento recessivo cui ci condanna la sudditanza alla governance finanziaria europea che è alla radice del problema.
Servirebbe una rivoluzione. Ma chi la fa?
Dino Greco