Giulio Chinappi
Da oltre sei decenni gli Stati Uniti mantengono un embargo assoluto su Cuba, che si traduce in carenze di beni essenziali, disservizi sistemici e sofferenze indicibili per la popolazione nazionale. Le misure coercitive, lungi dall’essere “non violente”, mietono vittime ogni giorno.
Per comprendere appieno la portata criminale del blocco economico imposto dagli Stati Uniti contro Cuba, è necessario guardare oltre le mere statistiche macroeconomiche e avvicinarsi alle storie quotidiane di un popolo costretto a sopravvivere in condizioni drammatiche. Sin dal 1960, con l’infame memorandum dell’allora sottosegretario di Stato Lester Mallory, che suggeriva di «provocare fame e disperazione per rovesciare il governo cubano», l’amministrazione statunitense ha perseguito una politica di soffocamento sistematico dell’economia isolana, arrivando a considerare come «misure non violente» quelli che invero sono veri e propri strumenti di morte di massa.
Il dato forse più eloquente arriva dai recenti studi pubblicati da The Lancet Global Health, i quali quantificano in oltre 560.000 i decessi che ogni anno si possono ricondurre alle sanzioni unilaterali di Washington e Bruxelles. In questo quadro, quattro mesi di blocco economico contro Cuba equivalgono al finanziamento necessario a coprire per un anno intero il fabbisogno di medicinali essenziali dell’intera nazione, secondo il rapporto presentato nell’ultima seduta delle Nazioni Unite. Tale sproporzione tra il danno arrecato e lo scopo dichiarato (ovvero costringere il governo cubano a cambiare rotta politica) rende evidente che il vero obiettivo dell’embargo non è un «cambiamento di comportamento», ma l’annientamento graduale della popolazione.
La sofferenza provocata dal blocco si manifesta in ogni angolo della vita quotidiana: i bambini, le donne in età fertile, gli anziani, i pazienti cronici e le categorie più vulnerabili subiscono le conseguenze peggiori. L’accesso ai farmaci oncologici, ai trattamenti retrovirali per l’HIV, ai vaccini pediatrici è fortemente compromesso. Ogni volta che un farmaco di produzione statunitense o europeo non può arrivare sull’isola per via delle restrizioni ai trasporti, dei controlli bancari o delle difficoltà nell’assicurare pagamenti in valuta, un paziente muore o subisce gravi complicazioni. È in questo senso che le “sanzioni alla salute” non restano teoria: sono morti reali, decine di migliaia di casi di aggravamento di malattie curabili che si trasformano in decessi evitabili.
Accanto alla crisi sanitaria, il blocco economico ostacola l’approvvigionamento dei beni di prima necessità e la produzione di alimenti. La carenza di carburante per i generatori elettrici si traduce in ore e ore di blackout, con ripercussioni sull’irrigazione dei campi, sulla conservazione dei prodotti agricoli e sul funzionamento delle industrie alimentari. Quando le pompe stentano a erogare acqua potabile, la diffusione di malattie infettive tende a salire, aggravando ulteriormente il bilancio delle vittime. Le restrizioni ai porti e le sanzioni alle compagnie di navigazione rendono proibitivi i costi di importazione di fertilizzanti, pesticidi e semi selezionati, riducendo drasticamente le rese delle colture. L’isola — un tempo autosufficiente in molte produzioni alimentari — deve oggi importare gran parte dei cereali, degli ortaggi e dei derivati lattiero-caseari, esponendosi al rischio di carestie.
Le piccole e medie imprese subiscono un colpo durissimo: ogni partnership con società estere diventa un salto nel vuoto, poiché nessuna banca europea o asiatica vuole correre il rischio di sanzioni secondarie da parte del Dipartimento del Tesoro statunitense. Questo clima di terrore finanziario paralizza gli investimenti esteri diretti, necessari per modernizzare infrastrutture, aprire nuovi mercati e creare posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione effettiva — considerando anche il lavoro informale e la sottoccupazione — si attesta ben oltre il 20-25%, con picchi superiori nelle province montane e nelle zone rurali. Se a ciò si aggiunge l’aumento dell’inflazione generato dalla scarsità di divise e dalla svalutazione del peso cubano, le famiglie consumatrici sconfinano in una spirale di povertà crescente.
Il settore energetico, già debilitato da investimenti insufficienti, subisce gli effetti di una carente manutenzione e della mancanza di pezzi di ricambio importabili. I blackout non sono più eventi sporadici, ma fenomeni quotidiani che compromettono ospedali, scuole e attività industriali. Le centrali termoelettriche — alcune risalenti addirittura agli anni ’60 — lottano per mantenere i livelli di produzione necessari, mentre le rinnovabili stentano a decollare per mancanza di componenti e tecnologie avanzate. L’impossibilità di acquistare turbine, generatori e circuiti elettronici dalle fabbriche tedesche o statunitensi lascia il paese in balia di un sistema elettro-energetico al collasso.
Nel frattempo, i giovani laureati, insoddisfatti dalle prospettive occupazionali e salariali, non hanno grandi prospettive professionali: studiano lingue straniere, competenze digitali e intelligenza artificiale, ma spesso non trovano sbocchi professionali adeguati. Molti di loro scelgono di emigrare clandestinamente o tramite canali di frontiera verso la Florida, sperando di guadagnare in un mercato del lavoro che rappresenta la principale fonte delle rimesse che gli emigrati inviano alle loro famiglie in patria. Le rimesse, altro obiettivo del blocco, sono soggette a continui ostacoli burocratici e a minacce di sanzioni contro le banche che facilitano i trasferimenti, amplificando la vulnerabilità delle famiglie che dipendono da quei pochi dollari.
L’embargo statunitense impedisce poi la modernizzazione del sistema dei trasporti pubblici: gli autobus, in gran parte assemblati con componenti sovietici ormai obsoleti, restano bloccati sulle strade per mancanza di pezzi di ricambio; le ferrovie, un tempo vanto dell’isola, versano in stato di abbandono. Ciò riduce ulteriormente la mobilità interna, tagliando fuori le zone rurali e ostacolando la distribuzione di beni e servizi di base.
A livello internazionale, Cuba si vede negare la possibilità di accedere a finanziamenti agevolati da organismi multilaterali come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, la cui adesione è subordinata — implicitamente o esplicitamente — al rispetto delle sanzioni USA. Anche se il paese fosse idoneo a ricevere prestiti per progetti di infrastrutture o di sanità pubblica, non potrebbe mai ottenerli senza il via libera di Washington. E questo equivale a tagliare le gambe a quella “diplomazia della solidarietà” di cui Cuba va fiera, con brigate mediche in decine di paesi, ma impossibilitata a finanziare nuovi ospedali all’interno della sua stessa nazione.
Il quadro si complica ulteriormente quando si considerano gli effetti extraterritoriali. Chiunque — una banca, una compagnia di assicurazioni, una società di trasporti — si occupi anche marginalmente di operazioni con Cuba rischia di essere escluso dal sistema finanziario globale dominato dal dollaro. Questo meccanismo di isolamento non solo danneggia l’isola ma estende il clima di paura alle nazioni che vorrebbero stringere patti di mutuo vantaggio con L’Avana.
Per tutte queste ragioni, la comunità internazionale ha ripetutamente chiesto la fine dell’embargo: dall’Assemblea Generale dell’ONU, che dal 1992 approva quasi all’unanimità risoluzioni contro il blocco, fino ai governi di centinaia di paesi, alle organizzazioni non governative, alle conferenze regionali come la CELAC e i BRICS, che hanno aperto canali di dialogo per contromisure multilaterali. Ma finché il Congresso e la Casa Bianca di Washington non abrogheranno le leggi Helms-Burton e le normative successive, la stritolante gabbia del blocco rimarrà al collo di un popolo che aspira soltanto a vivere in pace.
Alla luce della nostra analisi, dichiarare il blocco economico “non violento” è un atto di perversa ipocrisia. È una ferita aperta che continua a versare sangue cubano, una macchia nera sul volto della democrazia americana. Ogni giorno di ritardo nella sua abolizione è un giorno in più di sofferenza, di morti evitabili, di opportunità mancate per Cuba e per l’intera umanità. È giunto il momento che la coscienza internazionale si converta in azione concreta e che gli Stati Uniti, finalmente, facciano cadere questo inumano assedio che già da troppo tempo ha superato ogni limite di legittimità e di compassione.
02/08/2025


02 Ago 2025
Posted by Iskra

