Carlo D’Adamo
Che senso ha la brutta sentenza 14/03/2017 n° C-157/15 della Corte di Giustizia dell’ Unione Europea, che sostiene il diritto delle imprese a licenziare le donne che portano il velo all’interno dell’azienda? La sentenza, rigettando i ricorsi di due donne musulmane, licenziate per lo stesso motivo, una in Belgio ed una in Francia, ha negato il reintegro e ha giustificato il licenziamento. La sentenza del 14 marzo è squallida o, se preferite, razzista, sessista, ipocrita e falsamente garantista; usando un linguaggio che in superficie sembra political correct porta avanti in profondità una linea reazionaria e ultraliberista. Proviamo a riflettere.
PREMESSA. La CGUE (Corte di Giustizia dell’Unione Europea) è formata da 28 membri nominati dai governi degli stati europei aderenti all’Unione, e da 11 avvocati generali, scelti dai governi, e quindi dai partiti, per la loro affidabilità. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di professori universitari, avvocati con grande esperienza, giudici che hanno alle spalle una lunga carriera: requisiti che però non sono sempre una garanzia di indipendenza. In qualche caso i governi nominano personaggi discutibili, provvisti di una laurea “honoris causa” concessa da qualche università privata (che può dare incarichi di docenza a chi vuole), o dotati di “master” e “dottorati” conseguiti online da qualche istituto albanese (come la laurea in Non Si Sa Cosa comprata dal “Trota”, il famoso figlio di Bossi); o, magari, personaggi in possesso di un curriculum autoprodotto – come quello dell’attuale ministra italiana dell’Istruzione, o privi di laurea e offensivi nei confronti di chi se l’è sudata – come l’attuale ministro italiano del Lavoro, un perito agrario esperto in voucher. Vengono in mente tutti questi esempi negativi perché la sentenza 14/3/2017 che proibisce il velo nei luoghi di lavoro si presta a mille considerazioni negative, una peggiore dell’altra, e il fatto che la scelta dei giudici della Corte di Giustizia sia una scelta politica si presta ad altre considerazioni, altrettanto negative.
La primaconsiderazione negativa è che i giudici hanno perso una grande occasione per dimostrare che l’Unione Europea non è la casa del polacco Janus Kowin-Mikke, quello stupido al quale hanno raccontato che le donne sono poco intelligenti. Con questa sentenza anche i giudici della CGUE hanno dimostrato di essere poco intelligenti. Fra le raffazzonate argomentazioni dell’eurodeputato Kowin-Mikke per dimostrare l’inferiorità delle donne c’è anche questa: che fra i primi cento campioni mondiali di scacchi non è presente nemmeno una donna. È facile rispondere che non è presente nemmeno un giudice della CGUE. E nemmeno un parlamentare europeo. Come la mettiamo, allora? Qui c’è qualcosa che tocca.
La secondaconsiderazione negativa è che non è detto che i giudici, quando si arrampicano sui cavilli con argomentazioni contorte, si riferiscano ad un concetto di giustizia astratto che tentano di interpretare: a volte lo stile fumoso copre interessi ben poco astratti e molto concreti, come diversi giudici italiani d’alto bordo, esperti in cavilli (Spagnuolo, Squillante, Verde…) plurimiliardari perché corrotti, e condannati con sentenze definitive (ma poi amnistiati…) dimostrano, ahimé, molto chiaramente. Con questa contorta sentenza i giudici della CGUE dimostrano di saper piegare la teoria astratta della legge uguale per tutti nella pratica concreta della legge uguale solo per alcuni. Ma chi sono questi alcuni? Quelli che hanno il diritto di mettere le collanine con la croce o quelli che esibiscono la spilla del WWF? Quelli che portano in testa la kippa o chi mette al collo la sciarpa della Juventus? Lo stabiliranno i giudici della CGUE? L’importante è che passi il principio che, sì, tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
La terzaconsiderazione negativa – molto negativa – è che la sentenza riconosce ai privati la libertà di negare dentro l’azienda l’esercizio di un diritto civile ai subordinati, pena il licenziamento. Ma come, se in teoria nessuno deve essere discriminato per motivi di sesso, razza, religione, nazionalità o convinzioni politiche, perché dentro le mura dell’azienda il rispetto dei diritti non vale? Qui, ahimè, ci troviamo di fronte anche ad una lunga tradizione Bocconiana (Dini, Prodi, Amato, Ciampi, Monti, Fornero) e padronale (Agnelli, Romiti, Marchionne), che si esprime sempre a favore della libertà del padrone (non dell’imprenditore: del padrone) e reprime i diritti dei subalterni. Ne sono prova i sindacati gialli, dal 1948 in poi, l’espulsione della FIOM dalle RSU e dalla contrattazione (Marchionne, spalleggiato da Renzi), le donne costrette a firmare in bianco una lettera di dimissioni (che scatta se rimangono incinte: è prassi comune), e, con il Jobs Act, la eliminazione del diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Il diritto a riavere il proprio lavoro è sostituito da una buonuscita che permette al padrone (non all’imprenditore: al padrone) di sbattere a casa chi è iscritto a un sindacato scomodo. L’idea di fondo è che i quattrini devono prevalere sui diritti, il che la dice lunga sulla profondità di pensiero della classe dirigente del nostro Paese, abituata a misurare il mondo con la pochezza del proprio decimetro e con l’abitudine a corrompere e ad essere corrotta, dalla TAV all’Expo, dal Sacco di Roma al Ponte sullo Stretto. Ma se le persone sono merci, tutto ha un prezzo. Non esiste più lo Statuto dei lavoratori, ma c’è un menu dei lavori; è rinato il caporalato , con pseudocooperative da cui dipendono poveri cristi pagati 500 euro al mese, che si occupano di pulizie, di mense, di ospedali, di servizi e di supermercati. E l’attuale ministro del Lavoro è un esperto di pseudocooperative.
Per questo i giudici della CGUE potrebbero anche non giocare il ruolo di zuzzerelloni in proprio, ma esprimere una linea politico-culturale, una vera e propria Weltanschauung per conto terzi, e agire su delega dei governi. Sembrerebbero infatti i fedeli rappresentanti di uomini di stato con una mentalità subcoloniale, una faccia fotogenica, una formazione da contabili di condominio e un livello culturale al di sotto della decenza: espressione, o emulsione, di una sottocultura liquida, affidata alle comparsate televisive e ai talkshow, ai selfie e a Facebook, ai manager del caporalato e ai giornalisti di regime, che trasforma in capi di governo anche gli imbonitori da bar. Per questa gente, la democrazia è la marca di un dentifricio.
Se scendiamo nel merito della sentenza, le contraddizioni esplodono come petardi.
Vietare il velo non discrimina direttamente, perché tutti i segni visibili di appartenenza politica o filosofica o religiosa sono vietati, sostiene con una buona dose di ipocrisia la CGUE. Ma nel caso che il divieto comporti uno svantaggio per chi aderisce a una determinata religione o ideologia [ad esempio, potremmosuggerire, gli ebrei, i comunisti, i musulmani, i Rom, quelli della Fiom], allora “può costituire una discriminazione indiretta”. Ma la discriminazione indiretta può essere giustificata oggettivamente come “il perseguimento di una finalità di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti”, purché, beninteso, i mezzi impiegati per questa legittima discriminazione siano “appropriati e necessari”.
Una sintesi brutale ma realistica dei cavilli della CGUE può essere la seguente: Vietare il velo dentro l’azienda non discrimina le donne musulmane, perché sono vietati tutti i segni religiosi e politici; però può discriminarle più di altre persone, perché il divieto comporta uno svantaggio, in pratica, solo per le donne musulmane. L’azienda però può giustificare la discriminazione, anche se comporta uno svantaggio solo per le donne musulmane, sostenendo che la discriminazione dei dipendenti è necessaria per dare ai clienti un’immagine di azienda che non discrimina…. Anche se non c’è un regolamento scritto, il diritto di licenziare chi non si adegua rimane. Quindi il padrone può licenziare chi vuole, quando vuole, come vuole: da questo punto di vista, tutti i dipendenti sono uguali, quindi non c’è discriminazione. Insomma, discriminare si può, a patto che non sia discriminatorio, ma solo discrezionale.
Perché giuristi esperti e capaci abdicano alla propria intelligenza fino al punto di sembrare stupidi come il polacco Kowin-Mikke? Perché con queste ridicole argomentazioni, redatte con spudoratezza e nessun senso del ridicolo, rinunciano anche alla propria dignità di esseri umani?
Il fatto è che in passato la CGUE ha esaminato altri ricorsi di donne licenziate per l’esibizione del loro segno di fede: uno era stato inoltrato da una presentatrice televisiva di Oslo, licenziata dalla televisione, su richiesta della comunità musulmana, perché ostentava una collana con un pendente a croce; l’altro era stato inoltrato da una hostess inglese, sospesa dal lavoro dalla British Airways perché si era rifiutata di coprire la sua collana che aveva un piccolo crocifisso. Giustamente i ricorsi erano stati accolti, le società erano state condannate e le donne, licenziate perché discriminate, erano state reintegrate sul posto di lavoro.
Perché per la CGUE vietare la croce è discriminatorio e vietare il velo no?
Sembra che i nostri giuristi vogliano solleticare il leghismo diffuso, gli integralismi rinascenti, le banalità sulle “nostre radici”, sulla “nostra identità”, sulla “nostra cultura”, e per questo facciano l’occhietto a tutti i Kowin-Mikke di passaggio. Per giustificare il razzismo diffuso si scrivono banalità come “il crocifisso fa parte della storia del mondo”. Questo è vero, ma anche il velo fa parte della storia del mondo; e anche la kippa fa parte della storia del mondo… O crediamo che il mondo sia la cerchia ristretta dei simili a noi? quelli che frequentano il nostro bar e tabacchi?
Sono lontani i tempi in cui Berlinguer, rispondendo a una sollecitazione di monsignor Bettazzi, allora vescovo di Torino, scrisse che pensava a uno Stato “laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista”, che, tradotto in italiano, significa laico nel senso ampio del termine, cioè non confessionale, che rispetta tutte le diverse opinioni e religioni, senza privilegiarne nessuna e senza discriminarne nessuna. Ciò significa, coerentemente, che l’esercizio della democrazia non deve andare nella direzione della esclusione di gruppi etnici o religiosi, politici o culturali, ma nella direzione della loro inclusione. In altri termini, non è con la riduzione dei diritti di alcune categorie di cittadini che la democrazia avanza, ma con l’allargamento dei diritti. Per questo la sentenza della CGUE è profondamente sbagliata. Per questo i giuristi della Corte fanno finta di essere stupidi perché non rappresentano solo se stessi, ma una serie di governi razzisti in un’Europa piena di muri e di sciovinismi, di destre reazionarie e di populismi.
È questa l’Europa?